La Cipolla Antropologica e l’Odore Culturale del Basilico

RAPIDE MODIFICAZIONI DEL PROFILO COMUNITARIO DEI MEDIO PICCOLI CENTRI ITALIANI
SEMPRE PIU' EVIDENTI LE PREVISIONI DEL SOCIOLOGO TONNIES CHE  PRECONIZZO' LA TRASFORMAZIONE DEGLI AGGREGATI COMUNITARI IN SOCIETA' SEMPRE PIU' APERTE
di Massimo Scorretti

Il fulcro di questo intervento e' rappresentato da un analisi genuina ed un po' alla mano di quanto, da ormai una decade, si sta verificando nei piccoli centri urbani di cui e' straordinariamente ricco il nostro paese. Ci riferiamo, in poche parole, allo stravolgimento del volto antropologico, originario dei piccoli centri, conseguente alla massiccia immigrazione, extracomunitaria e non, avvenuta in essi negli ultimi anni.
Abbiamo preso come punto di riferimento, un medio piccolo centro sito alle porte di Roma che allo stato attuale conta circa 10.000 abitanti. Nel 1995 questo centro contava non piu' di 5000 abitanti.
Da tempo si odono, qua e la in questo paese, gli echi sordi di una polemica strisciante e stucchevole che colloca i propri contenuti ai confini tra l’antropologia culturale ed il pettegolezzo rionale ed in alcuni deprecabili strascichi anche di intolleranza etnica.  Parliamo della polemica sorta tra i cosiddetti “nativi” del posto e quelli che abbiamo ridefinito, usando un termine di sintesi “i sopraggiunti”. 
La polemica cioè tra coloro che sono cittadini del paese di nascita e coloro che sono cittadini adottivi, in quanto hanno eletto, più o meno recentemente, la propria residenza  in questo paese. Non sono pochi coloro che sino ad adesso hanno scomodato le meningi per inerpicarsi sugli aspri declivi concettuali di un tema percepito, da taluni, come meritevole di suscitare schieramenti contrapposti. Per enfatizzare la contrapposizione tra nativi e sopraggiunti, c’è chi, da un lato, la butta sulla prevalenza numerica di una delle due frange (6000-6500 sarebbero ormai i sopraggiunti contro i 3500 nativi) e l’indebolimento dell’originale matrice comunitaria. C’è chi tira in ballo la “tutela delle diversità” (immaginando che i “diversi” siano i sopraggiunti) e le risoluzioni dell’UNESCO; c’è chi parla di “razzismo” e “provincialismo” e chi si spinge più in la a scomodare le categorie del pensiero politico, reclutando anche espressioni di tipo “atteggiamento a-democratico”. Vi è in atto un confronto-scontro, tra strati della collettività che vivono sul territorio del questo comune e particolarmente di coloro che risiedono nel centro storico. Sembrerebbe, in piccolo, di aver traslato lo “Scontro di Civiltà” - postulato da Huntington - su questo territorio. La civiltà comunitaria dei nativiversus - la civiltà societaria dei "sopraggiunti" che i nativi definiscono con il consuetudinario nomignolo di “forestieri”. 

Non c’è che dire l’uso del termine forestiero, ai sopraggiunti, proprio non va giù. Viene percepito come una volgarità gratuita. Poco sopportabile soprattutto se proferita da chi (i nativi), dopo aver svenduto i beni e le memorie di famiglia e con essi il proprio retroterra culturale, sembrerebbe aver perduto, contestualmente ai beni, l’identità ed il diritto di rivendicare una sorta di primogenitura, nel determinismo di quanto accade sul proprio territorio. Eppure è noto a tutti che in Italia, paese dei diecimila campanili, ognuno, al contempo, è forestiero e cittadino di un qualche dove. Secondo questa logica, chi vende la casa, con essa vende anche lo jus a mantenere il cordone ombelicale, inscindibile, che esiste tra terra natia e persone. Sfugge il concetto che l’atteggiamento orientato a mantenere una distinzione, poi altro non è che una misura della comunità, intrapresa d’istinto dai nativi, nel tentativo di salvaguardare e tutelare la cultura popolare originale del luogo, in tutta la sua larga accezione.  Si agisce in risposta ad un percepito jus, ancestrale ed irrinunciabile, da parte dei nativi che gli fa apparire questa terra come terra natia e quindi profondamente compenetrata alla loro esistenza. In questo confronto di civiltà chi è, quindi, più civile tra i due schieramenti che si contrappongono?  Forse è più civile chi abbandona le mura tufacee, in cui ha trascorso una grama infanzia e tre quarti di esistenza, per dirigersi verso le più confortevoli mura, costruite in sintetico poredon, delle villette edificate su terreno agricolo? Oppure sono più civili coloro che avendo vissuto metà esistenza nelle più confortevoli mura dei palazzoni romani, adesso, ispirati da una visione cultural bucolica della vita, anelano di trascorrere l’altra metà, della stessa, nell’ammiccante umidità storicizzata del tufo del borgo? Sappiamo tutti che nel borgo le abitazioni hanno mantenuto, all’esterno, le sembianze antiche, ma all’interno sono ben lontane dall’essenziale rigore strutturale delle dimore di 50 o 100 anni fa. All’epoca tra le vie del borgo, più che l’odore del basilico, le narici dei villici, potevano percepire l’odore dell’urina e della cacca, proveniente dai cessi all’aperto, frammisto a quella della zuppa di borragini e dei fagioli, pasto unico obbligato delle disadorne mense domestiche dell’epoca. Altro che basilico e rosmarino. Dietro gli usci e gli archi in marmo o peperino rozzo dell’epoca (oggi tanto cari alla cultura del recupero e della conservazione), c’era lo stanzone tenuemente illuminato dalla luce fioca delle lampadine da 15 candele o dalle candele di cera con i pavimenti polverosi e senza mattoni, fatti esclusivamente di terra battuta. Qualcuno pensa che fosse bello ed accattivante vivere nel centro storico allora? E’ sicuramente bello e facile contemplare, oggi, la cultura del tempo che fu e le bellezze estetiche del nostro borgo, magari in salotto con gli amici, intorno al caminetto, tra gli intarsi di travertino e le tavole di ulivo del parquet, illuminati dai nostri faretti da 200 watt, con una bottiglia di Brunello di Montalcino e un bel cosciotto di agnello al forno, serviti sul tavolo antico di noce massello. E magari nel bel mezzo del discorso dire che i “burini” locali hanno lasciato quelle case, cosi culturalmente ed esteticamente rilevanti, per dirigersi verso la villetta mono o bifamiliare. Intendiamoci, non ci trovo nulla di male che ciò avvenga, sebbene mi sembra sin troppo evidente che tale posizione si realizza sulla scia di una profonda ipocrisia di tipo culturale. Penso, di contro, che se qualcuno di coloro che hanno vissuto per decenni in quelle case, si sia rotto le balle degli umidi massi tufacei e dell’artrosi che la medesima umidità gli ha generato ed in barba a tutte le didascaliche ed autorevoli considerazioni culturali, dei sopraggiunti, se ne sia andato a svernare in un posto più adeguato per le loro ossa: beh io direi di lasciarli in pace nei loro villini, lasciandoli nella convinzione di aver fatto un “affare” nel cedere la casa “paterna” del borgo ai “signoroni romani”. 

Ma torniamo alla dicotomia “nativi-sopraggiunti”. Quando si parla di “nativi” mi scatta di riflesso l’immagine mentale di alcuni volti noti dell’antico mondo castelnuovese e mi sembra quasi di vederli con il gonnellino di paglia (in perfetta assonanza  con i nativi delle giungle del Borneo) e la panza penzoloni, ad inscenare ritualità esoteriche e consuetudini propiziatorie intorno, al paiolo bollente, contenente fagioli e borragini.  I sopraggiunti, dal canto loro, indossano i panni, più regali, di quegli avventurieri e scopritori di tesori e di civiltà nascoste, sullo stile di Indiana Jones, con l’aria trasandata ed un habitus tra l’intellettuale decadente e l’uomo d’azione sul genere Amaro Montenegro. Si confondono, nel tentativo di compenetrarsi, due universi totalmente diversi e scarsamente interagenti. Per dirla in maniera elegante il mondo di quelli per i quali il basilico emana un odore ed un profumo anche culturale e quello di coloro per i quali, lo stesso basilico, non rappresenta altro che un comune ed umile, anche se gradevole, condimento per i pomodori. 

Il paese continua a crescere, come ha sempre fatto, sin dal medioevo. Cioè a dire per cerchi concentrici, sovrapponentisi, in senso centrifugo. Se guardiamo dall’alto questo paese medioevale nel suo centro storico, al pari di altri, si vede come la sua struttura urbana, sia articolata in cerchi concentrici che si espandono dall’interno verso l’esterno. Come una cipolla composta da strati che si sovrappongono, a partire dal nucleo interno, procedendo verso l’esterno. Questa tendenza non si è mai interrotta, ed è ripresa nel corso degli ultimi 30 anni. Abbiamo assistito ad una stratificazione, ancorché urbana e strutturale, anche di tipo sociale. Al nucleo centrale, primordiale, rappresentato dalla comunità originale ed ultrasecolare, si è andata, via via, sovrapponendo, dapprima una fascia stabile rappresentata da famiglie approdate nel paese nel periodo della seconda guerra e del dopoguerra e che sono qui da più di 60-70 anni, ed una polistratificazione recente, da 30 anni ad oggi che rappresenta la grande fuga dalla metropoli. A quest’ultimo strato si sta giustapponendo lo strato dell’immigrazione extracomunitaria, degli ultimi 15 anni che conferisce, alla nostra cipolla, un bel sapore e colore mitteleuropeo. Il nucleo “duro e puro” della comunità originale ha resistito alle contaminazioni e pur dimostrando, per alcuni versi, un certo grado di apertura verso le comunità sopraggiunte, ha mantenuto una rigorosa chiusura a riccio ed una indisponibilità alla contaminazione ed alla fusione.  Gli strati antropologici della nostra cipolla sono ben isolati uno dall’altro e non comunicano. I villici originari se li tengono ben stretti i loro cromosomi. Li cedono malvolentieri. Guai ad ibridizzarli con qualche “parvenu” dell’ultima ora. Ed anche se la strutturazione del nostro aggregato umano locale è passato da quella che lucidamente il sociologo tedesco Tonnies aveva identificato come Gemeinshaft (comunità) ad una strutturazione di tipo Gesellshaft (società), vi è tuttavia una strenua resistenza dei nativi a mantenere intatta la radice originale. Lo spirito comunitario tenta una vana resistenza alle spinte evoluzionistiche di una società globale, nel tentativo di mantenere intatto un mondo antico, recuperando la sfera riflessiva, contemplativa ed umanistica. Le nuove generazioni, tuttavia, hanno aperto la strada alla globalizzazione genetica. Non vi sono più barriere a mantenere isolato il proprio patrimonio genetico. 

Per concludere, vi è posto per tutti in questo paese, pur con i necessari distinguo. Vi è posto per coloro che sono parte integrante di questo territorio, in quanto particelle atomiche del medesimo, collegate ad esso da un cordone ombelicale tanto profondo, quanto invisibile. Vi è posto per coloro che hanno stabilito un rapporto culturale ed estetico con esso, apportando valori moderni e post moderni e consentendo un’evoluzione del territorio verso i paradigmi della modernità che fanno del territorio una risorsa collettiva da tutelare e valorizzare e non da utilizzare come meglio capita e ad onta di tutto e di tutti, per esclusivi fini individuali. Per coloro che vorranno restare il tempo farà la differenza e proprio quando, senza accorgersene, avranno finito di indossare i panni consunti di Indiana Jones, per quelli più popolari ed autentici di persone normali, allora si renderanno conto che forse i nativi non si accorgeranno più di loro e li avranno integrati nel costume e nelle dinamiche relazionali.  Chi ci avrà guadagnato in tutto ciò? Qualcuno ha delle certezze in merito ?

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